Quando è scoppiata la seconda guerra mondiale non ero nata, ma della guerra mi ricordo perché i suoi segni sono rimasti sul corpo di mio padre per tutta la vita.
Sono nata nel maggio del 1941 e nell’ottobre del ‘42 mio padre Celestino è partito per il fronte. Noi abitavamo al Morello, un paesino vicino a Sassoferrato. Io sono rimasta con mia madre Elisa e i nonni Agatina e Nazareno.
Mio padre ha vissuto uno dei drammi più profondi della seconda guerra mondiale: la campagna di Russia, il più importante teatro della guerra tra le potenze alleate e la Germania nazista. Quando la Germania dichiarò guerra all’Unione Sovietica, il 22 giugno 1941, Mussolini decise che l'Italia non poteva essere estranea all’operazione Barbarossa e nell’estate del 1941 ordinò l'allestimento di un Corpo di Spedizione Italiano in Russia (C.S.I.R.) di circa 60.000 uomini. I tedeschi attaccarono l'URSS, convinti di potercela fare in cinque settimane, ma non fu così. Un anno dopo Mussolini inviò i rinforzi: l'ARMIR, l'ottava Armata Italiana in Russia, costituita da 229 mila uomini male armati. Compito degli italiani era conquistare Stalingrado e a settembre ebbe inizio la battaglia, ma alla metà di novembre gli italiani e i loro alleati furono accerchiati dalla controffensiva sovietica. Le divisioni italiane, in disperate condizioni fisiche e prive di equipaggiamento adatto ai rigori del clima, resistettero per quattro giorni, poi arretrarono e crearono una linea di difesa alcuni chilometri più a sud. Il 19 dicembre del '42 venne dato alle truppe italiane l'ordine di ripiegare. Ebbe inizio la drammatica ritirata dell'ARMIR. Il 26 gennaio, in piena ritirata, a Nikolajewka ci fu una sanguinosa battaglia e gli italiani riuscirono ad aprirsi un varco nello sbarramento sovietico e a proseguire la ritirata.
Mio padre aveva fatto il militare nel 1936. Era Romani Celestino, matricola 34065 e proveniva dal distretto reclute Orvieto - primo reggimento avieri Roma. Fu richiamato per la guerra il 6 ottobre 1942 con una lettera del colonnello Francesco Contuzzi, che era al comando del distretto militare di Ancona.
Lui non amava raccontare di quei mesi terribili, passati a camminare in mezzo alla neve, tra i corpi di soldati, di donne e di bambini morti, tra il freddo e la fame. Non mi ha mai detto di quale corpo facesse parte. So solo che era nella fanteria: quelli che andavano a piedi. Dai suoi pochi racconti ho capito che i soldati non sapevano dove sarebbero andati. Avevano scarpe e vestiti inadatti e per questo molti di loro morirono di freddo.
A lui andò meglio. Non morì. Riuscì a tornare, mezzo congelato e, una volta arrivato al confine italiano, fu portato all’ospedale di Bologna, dove, a causa del congelamento, gli furono amputate otto dita delle mani, il mignolo di un piede e una parte del naso. Da quel giorno mio padre, persona mite e sempre serena nonostante tutto quello che gli era capitato, prese l’abitudine di tenere le mani in tasca, o dietro la schiena. La grave menomazione alle mani, tuttavia, non gli impedì, in seguito, quando ci trasferimmo a Roma, di prendere la patente. Guidava una Fiat 600 modificata con un pomello che gli permetteva di afferrare il volante e con una prolunga che gli serviva ad arrivare al freno a mano anche senza le dita.
Quando tornò in Italia mia madre e mia nonna andarono a prenderlo in treno all’ospedale di Bologna e lo riportarono a casa. Poi mia madre restò incinta delle mie due sorelle gemelle: Silvana e Fausta, che nacquero nell’agosto 1944. Quando era di otto mesi, al Morello arrivarono i tedeschi. Devastarono le case, portarono via il bestiame e impiccarono sei partigiani lungo la strada del paese. Entrarono in casa mia e ci tagliarono le scarpe, comprese quelle del matrimonio di mia madre. Allora andammo come sfollati nella casa della sorella di papà, zia Antonia, che stava in un posto di campagna lontano dal paese. Quando i tedeschi arrivarono lì, videro mia madre con la pancia così grande e la portarono in ospedale per farla partorire, ma lei dopo qualche tempo, stanca di aspettare che le mie sorelle nascessero, prese il suo cuscino sottobraccio e tornò a casa a piedi. Camminò per nove chilometri e quando arrivò i tedeschi se n’erano andati, così le mie sorelle nacquero a casa nostra.
Dopo si ricominciò a vivere, piano piano.
Mio padre ricevette una croce al merito di guerra nell’anno 1954.
Nonna Marisa
per Giulia
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