Questa mattina una scossa di terremoto. Magnitudo 2.4, neanche sentita da tutti. Ma è sussultoria e non ci piace. E poi anche questo è un anno con il 2 e noi anconetani per forza di fronte a questi eventi torniamo indietro nel tempo, almeno per un attimo.
“Via Posatora si è tutta gonfiata, e spaccata in più punti” diceva il Corriere Adriatico di Ancona del 14 dicembre 1982. “La grossa striscia di terra che dal Fornetto declina verso il mare è cominciata a scivolare trascinando nel suo lento movimento le case”.
Quando la terra si muove a noi basta un attimo per essere consapevoli del pericolo, perché abbiamo alle spalle una storia centenaria di frane, terremoti, alluvioni. E’ un allerta che ti senti dentro, la senzazione di un deja vu.
Il 13 dicembre 1982 era lunedì e alle 10,35 di sera, quando la terra ha cominciato a franare, molti erano in casa. “Ecco, ci risiamo torna il terremoto” devono aver pensato in parecchi. Ma è bastato poco per capire che si trattava d’altro: le case non tremavano. Scricchiolavano, si gonfiavano, si spaccavano. E via di nuovo in strada, come con il sisma del ‘72, questa volta sotto la pioggia battente.
In quel momento la storia di quasi quattromila persone ha cambiato direzione, insieme con quella di un’intera città. “Nel silenzio della notte – scrive la giornalista Anna Scalfati il 15 dicembre – solo scricchiolii delle pareti e la sensazione di perdere l’equilibrio. Niente scossoni da brivido, ma, come un film al rallentatore o come uno sconosciuto che preme contro la porta, la massa fangosa ha iniziato a gonfiarsi e a forzare con insistenza sulle pareti e sotto la strada”. “Si sentivano in continuo piccoli rumori, tintinnio di bicchieri – racconta una signora – poi il pavimento che si inclinava. La gente gridava di scappare perché franava tutta Posatora, fino al mare”.
“In pochi minuti - riferiscono i giornalisti Walter Orazi e Bruno Nicoletti a poche ore dall’evento - nel quartiere di Posatora si è riproposta la visione allucinante della fuga di migliaia e migliaia di persone, vecchi, bambini, rinchiusi nelle auto, che scappavano attraverso l’unica via ancora transitabile, verso il Piano San Lazzaro o la stazione ferroviaria. La lunga fila di luci abbaglianti delle autovetture sotto la pioggia sempre più sferzante si incrociava con le autoambulanze”.
Pioveva quella sera ed era piovuto molto nei giorni precedenti. Così arrivò la frana. Si mosse la terra nella periferia ovest della città, sul versante nord della collina del Montagnolo. Scivolò verso il mare, a partire da un’altezza di 170 metri, muovendo 180 metri cubi di terreno, 220 ettari, l’11 per cento dell’area urbana di Ancona: i quartieri di Posatora, Borghetto e Palombella. Si attivò senza preavviso visibile, durò solo qualche ora e fu seguita da un lungo periodo di assestamento.
La mattina del 14 dicembre furono evacuati ufficialmente i quartieri colpiti. Di fatto tutta la gente era scappata durante la notte. 1071 famiglie dovettero lasciare le proprie abitazioni: 3661 persone. Di queste, 1562 furono trasferite negli alberghi e in altre residenze. 865 abitazioni, 300 edifici, furono danneggiati. L’85 per cento di questi fu ritenuto irrecuperabile; 15 crollarono subito, molti furono abbattuti in seguito, perché inagibili.
“Sembra di essere tornati ai tempi della guerra” scrive Nicoletti. “Case sbrecciate, lesionate, piegate su un fianco, e ad ogni incrocio, su ogni via di accesso, tutori dell’ordine che dirottano il traffico. Sotto le case, camion carichi di masserizie. La gente che l’altra notte era fuggita dalle abitazioni, abbandonando tutto, è ritornata con il cuore gonfio, per recuperare il salvabile”. Andarono distrutti anche 101 attività artigianali, con 200 addetti, 3 industrie, tra cui la Angelini farmaceutici, con 118 addetti, 42 negozi, con 129 addetti, 31 aziende agricole, con 60 addetti. Cinquecento persone persero il lavoro.
Quella sera la ferrovia fu divelta dal terreno. La strada costiera si crepò e si increspò, con dislivelli di qualche metro su un fronte di due chilometri e mezzo. “E’ saltata la strada statale” si legge sul giornale del giorno dopo. Di fatto la ferrovia e la strada scivolarono a mare per 10 metri.
“Ho attraversato – scrive una cronista - un inferno tagliente di lastre di asfalto”. “Il sedime stradale è sconvolto. In alcuni punti è sollevato di cinque o sei metri. La linea ferroviaria è irrimediabilmente danneggiata, i binari sono saltati in più punti, contorti. Il mare è arrivato a lambire la massicciata della linea ferrata. La stazione ferroviaria è inoperosa. In Ancona arrivano solo treni locali dal sud e, dopo l’inversione della motrice, ripartono. A nord, il traffico ferroviario si ferma a Falconara. Per i treni di grande comunicazione, invece, si parla di deviazioni per Roma”.
Subiscono danni irreparabili la facoltà di Medicina, due ospedali di rilievo regionale con oltre 500 degenti ricoverati: l’Oncologico, il Geriatrico, alcune chiese, un cimitero, una scuola, il centro operativo della Polstrada regionale, la casa di riposo.
L’oncologico – dicono - è “polverizzato”, insieme con le speranze di tutti i malati di cancro che andavano a curarsi nella struttura da molte parti d’Italia. Lì, oltre al dramma dei malati, che scappano in pigiama, con le flebo attaccate, c’è la paura che esplodano, contaminando l’aria, le due pasticche di cobalto radioattivo installate nei due bunker contenenti le apparecchiature per la telecobaltoterapia che si trovavano nell’ala più danneggiata dell’Oncologico.
I contenitori alla fine ressero, ma c’era il timore fondato che si potessero danneggiare se si fosse sviluppato un incendio. Le apparecchiature furono rimosse il 17 dicembre e poi collocate all’interno dei bunker della Marina militare. La frana fece una vittima, anche se indiretta: un paziente dell’ospedale morto di arresto cardiaco mentre lo trasferivano in ambulanza.
La situazione anche a Medicina apparve subito gravissima. “Non abbiamo più la facoltà” commentò immediatamente il rettore Paolo Bruni. In un primo momento si riuscì solo a recuperare il materiale più piccolo e il carteggio degli uffici. L’impresa più difficile riguardò i tre microscopi elettronici del valore di circa un miliardo di lire. L’università non sospese i servizi essenziali, garantì esami, concorsi e lezioni nelle scuole di specializzazione. Interruppe invece la didattica ordinaria, anticipando di una settimana le vacanze di Natale. Anche le scuole furono chiuse. Mancavano i servizi fondamentali: acqua e gas, in particolare. E poi le aule di alcuni istituti e un paio di palestre, quella del liceo classico e quella delle elementari Savio, servirono a ospitare gli sfollati nella prima emergenza.
“Al tempo – racconta nel suo blog Vittorio Carboni – lavoravo presso il laboratorio di Microscopia elettronica dell’istituto di Morfologia umana normale di Medicina. Martedì 14 con difficoltà e percorrendo gli ultimi chilometri a piedi poiché la normale viabilità era stravolta, raggiunsi la facoltà. Quello che vidi fu impressionante! I pilastri della struttura in cemento armato erano spezzati e piegati, come se qualche gigante avesse spinto prima l’edificio, per poi frenarlo bruscamente, così che il primo piano avesse continuato a spostarsi. A distanza di anni è ancora vivo il ricordo dell’impressione che si riceveva nel camminare nei corridoi inclinati cercando di vincere la gravità che spingeva contro le pareti. Porte dei laboratori che non si aprivano più. Vetri, intonaco, calcinacci ovunque. Alcuni giorni dopo, con l’assistenza dei vigili del fuoco, aprimmo un varco sul muro esterno del laboratorio, smontai il microscopio elettronico a trasmissione e scansione. Strumenti che erano costati svariate centinaia di milioni di lire. Gli strumenti furono poi rimessi in opera, con successo, in locali provvisori di Torrette, dove si riorganizzò e riattivò il laboratorio”.
Un dirigente dell’industria farmaceutica Acraf Angelini racconta ai giornalisti: “Nella notte la terra ha sfondato la parete posteriore del magazzino merci, lesionando irreparabilmente le strutture portanti”. “L’opificio, che dà lavoro a circa centocinquanta persone, è inagibile” scrive il Corriere del 16 dicembre. “La frana ha distrutto una campata del magazzino materie prime, danneggiando la struttura portante in acciaio, sconvolto il piazzale di carico e distrutto l’officina manutenzione. I danni, non ancora valutabili in quanto soggetti ad aumentare, ammontano già a diversi miliardi”. Le telecamere a circuito chiuso posizionate all’ingresso dello stabilimento testimoniarono come giorno per giorno il cancello veniva lentamente inghiottito dal terreno. E questo durò fino a quando non si fermò la frana.
“Le pareti di casa sono crollate e così anche la scala interna” racconta al giornale una abitante del Borghetto. “Non potendo fuggire per la strada che si era completamente sollevata, siamo scappati per i campi”. “Ho pensato che fosse il maremoto” aggiunge un’altra. “La frana ci ha quasi sollevati con un’ondata di fango”. E’proprio il quartiere del Borghetto, affacciato sul mare, a presentare l’immagine più desolante. “La fila di case che cingeva la statale verso la collina - scrive Anna Scafati il giorno 15 – è rimasta schiacciata, sepolta, distrutta, allagata tra la frana da una parte e la strada con il mare dall’altra”. “Mentre a Posatora – prosegue - era un viavai silenzioso di gente che composta si avviava verso differenti destinazioni, a Borghetto non c’è più vita. I vigili del fuoco vestiti di arancione sembrano le uniche figure animate. Intorno a loro rovine che pur recenti dimostrano già cento anni. Le finestre sbattono, una grossa tenda con il merletto viene usata come telone per raccogliere alla rinfusa oggetti personali lanciati da una finestra. Le porte delle case, laddove esistono ancora case, sono sotto terra per almeno due metri. Gli elicotteri sorvolano con insistenza la zona. Il Borghetto è veramente come un pianeta abbandonato. Non è più raggiungibile, non ha connotati utili alla vita, ma ha conservato nella furia della terra che franava, ricordi, speranze, oggetti che hanno tanti significati, come quella tenda con il merletto. Sì, è vero, morti non ce ne sono, non è stata una tragedia con scempio di vite umane, ma lo scempio c’è stato ugualmente, di risorse e di energie. La gente che con il terremoto aveva avuto la casa lesionata, adesso non ce l’ha per niente. I senza tetto sono fin d’ora definitivi, non provvisori. Tutta la città ne è rimasta coinvolta, colpita, ma avventurandosi per quella galleria degli orrori che è diventata la Statale 16, Flaminia, ci si rende conto che la popolazione ha avuto una frustata morale che non si aspettava, che sentiva di non meritare. Gente che si era fatta la casa o il negozio con gran fatica. Tutto quel fermento di negozi e negozietti, di botteghe e di casette che fino a due giorni fa facevano parte dei nostri panorami. Ebbene è finita. Passeranno mesi forse, ma arriverà chi dovrà livellare, ripulire dalle macerie e allora ci renderemo conto che questa frana ci ha derubato di molte, troppe cose”.
Eppure gli anconetani, ancora una volta, non disperano, abituati come sono a convivere con l’idea del rischio, che si nasconde quasi in ogni anfratto della terra sulla quale vivono da millenni.
Già dopo poche ora si parla di ricostruzione e si tirano fuori i progetti: nuovi quartieri, zone della città da rivitalizzare, l’arretramento della ferrovia...
I dubbi e le polemiche, certo, non mancano: perché, se si sapeva da secoli che lì c’era la frana, i piani regolatori non ne hanno tenuto conto? Di chi sono le responsabilità?
Sin da subito, però, Ancona è operativa: si impegnano oltre mille uomini al giorno, tra Esercito, Marina, Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza, oltre duemila giovani volontari di Caritas, Arci, Azione cattolica, Cl, Scout e Focolari si mettono a disposizione della macchina organizzativa e dei soccorsi, si studia la localizzazione per le nuove case, si cerca il denaro necessario per ripartire, si mettono in moto le macchine della solidarietà e, soprattutto, non ci si piange addosso. Lo scrive anche un cronista del Corriere della Sera: gli ingredienti della tragedia – dice – ci sono tutti. Ma ad Ancona manca qualcosa…
Infatti: la gente qui ha reagito subito, senza fare tragedie inutili.
Del resto quelli della frana sono gli stessi anconetani, o i figli di quelli che, dieci anni prima, riuscivano a scherzare sul grande sisma che continuò per mesi a colpire la città: “Noi, signora mia – si diceva nel 1972 - col teremoto ce ‘ndormimo i fjoli” .
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