lunedì 18 marzo 2013

CERCATORI DI PAROLE

Penso spesso alle "sudate carte" di Giacomo Leopardi: questa espressione mi dà l'idea di lui curvo sui suoi testi a cercare la parola giusta. Magari non è così, ma mi piace pensarlo, come mi è sempre piaciuto guardare i fogli di lavoro dei poeti e degli scrittori, con tutte quelle cancellature che non sono altro che tentativi di avvicinamento alla comunicazione perfetta: immediata, comprensibile, empatica.



Capirete dunque il mio interesse nell'ascoltare André Martinet che mi raccontava come e perché aveva scelto il suo metalinguaggio, cioè, una per una, le parole che gli servivano per parlare delle lingue, oggetto principale del suo studio.
E' tutto spiegato qui, nel quarto capitolo dell'intervista che sto pubblicando. I tecnici, i linguisti, ci troveranno alcuni spunti interessanti: perché secondo Martinet morfema e lessema non sono termini esaustivi? Perché è meglio monema? Cosa sono i funzionali e le modalità? Nella sua risposta c'è la storia del termine monema, da Henry Frei in avanti, c'è la centralità del contesto frase nella prospettiva dell'analisi grammaticale, c'è la definizione del suo metodo, che è funzionale, perché ha per oggetto l'osservazione del funzionamento di ciascuna lingua (how it works).
Ma c'è anche, e questo è il livello aperto a tutti, la traccia di un work in progress che porta il linguista e, in genere, chi comunica per mestiere, a non fermarsi sulla scelta di un termine fino a che non ha verificato che questo è completamente aderente alla realtà a cui si riferisce. "Per esempio - scrive Martinet - la questione della scelta del termine monema non è tanto chiara nei miei Elementi di linguistica generale. Lei forse ha letto la versione italiana, che è una traduzione della prima edizione del libro. Ma c'è una seconda edizione del 1980, che è stata modificata in molti aspetti e in particolare nel punto in cui si presenta il monema. Nella prima versione non ero molto sicuro di come muovermi su questo in Francia: dovevo mantenere la parola morfema, che era usata in riferimento a questioni grammaticali, e poi usare semantema e cose del genere? Non sapevo: ero appena tornato dall'America, non sapevo dov'ero io e dov'era il mio pubblico. Per questo non avevo deciso cosa fare delle mie unità minime. Quindi pensai di scegliere la parola monema, che dovetti prendere in prestito dal Henry Frei, con un senso differente, perché il significato attribuito da Frei a questo termine era quello che normalmente gli americani attribuiscono a morfema. Ecco perché per me era sbagliato: lui lo usava per evitare le implicazioni del termine morfema, ma la sua parola era diventata vittima dell'uso di morfema. Avevano cambiato solo la forma, senza modificare il valore della parola. Quando io cambio la forma, mi aspetto che la gente accetti un nuovo valore".
Qui mi torna in mente una delle citazioni della professoressa Giovanna Marotta alla presentazione delle pubblicazioni di Scritture Brevi, che si è tenuta il 21 febbraio a Roma: potresti aver bisogno di più tempo, non di meno, per scrivere qualcosa di breve e di buono (Mark Twain).
E' l'essenza della poesia, della bella scrittura, della comunicazione. Ogni verso, ogni frase che funziona, è stata, molto probabilmente, pulita e asciugata, plasmata per essere essenziale e significativa. Ogni scrittura che funziona possiamo pensarla come un insieme di scritture brevi, nella poesia come nella vita. E l'insieme può essere pieno di elementi (Il canto notturno di un pastore errante nell'Asia, la Sintassi generale di Martinet, la Costituzione...). Oppure può essere unitario: Si sta come d'autunno sugli alberi le foglie.

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