lunedì 17 maggio 2010

2 AGOSTO 1990


"Che bello, vai a casa?"
Ero felice per un amico arabo che aveva in mano quello che a me a prima vista era sembrato un biglietto aereo.
2 agosto 1990: "Non vado a casa. Saddam ha invaso il Kuwait. C'è la guerra... Krieg...".
Ero in una classe del Goethe Institut di una grigissima città della Germania del Nord, Saddam Hussein aveva appena invaso il Kuwait e lì era pieno di ragazzi arabi letteralmente storditi, come se avessero veramente avuto addosso le bombe che pochi mesi dopo avrebbero dilaniato i loro paesi. Alcuni di loro volevano tornare a casa ma non potevano, perché erano stati interrotti i collegamenti aerei. Io volevo tornare a casa, perché lì era tutto brutto, scuro e poco stimolante.
Quel ragazzo aveva il suo nome scritto sulla maglietta: Iahia, cioè, mi disse, Isaia. Diciotto anni, forse, o poco più. Era seduto nella sala della tv dell'ostello in cui abitavo e dove nei giorni precedenti si guardavano i mondiali di Italia '90. "Guarda Schillaci, ha gli occhi da bestia... Tier..." commentavano durante l'ultima partita dell'Italia. E dopo la sconfitta degli azzurri in semifinale contro l'Argentina erano tutti per le strade a festeggiare. Contro gli Italiani.
Pochi giorni dopo quest'atmosfera calcistica anti italiana che mi era sembrata cupa assumeva contorni molto più sbiaditi.
Improvvisamente c'erano gruppi di giovani arabi che da un momento all'altro, senza volerlo veramente, erano diventati nemici. Sembrava di stare in in piccolo laboratorio del mondo in cui le due parti in causa, pro e contro Saddam, si schieravano in assetto di guerra (e si temevano risse e coltelli...). Poi c'erano anche gli americani, e i non allineati del Nord Europa: ognuno ripeteva in vitro il suo ruolo.
Intanto Iahia teneva in mano quel pezzo di carta che in realtà era la ricevuta del rimborso del biglietto aereo e stava decidendo come affrontare quella realtà surreale. Lì era tutto tranquillo, in apparenza immutato: i nostri vestiti, le facce, la tv, la birra... Ma c'era un dato di fatto: adesso molti di loro erano soli. Senza ritorno, senza casa, senza famiglia. Forse è per questo motivo che Iahia decise di passare la notte seduto sui gradini delle scale dell'ostello, con me e la mia amica turca Tibet . Una notte intera per raccontarci la storia della sua famiglia. Ricordo che parlò di sua sorella, che mi sembra fosse un medico, di suo cognato, e di suo padre: uno che non si arrendeva. Per questo Iahia si preoccupava: "Ha problemi a una gamba, devo tornare a casa. Penso di arrivare in Giordania e poi vedrò...". Lo abbiamo lasciato raccontare tutta la notte. Tibet faceva più domande di me. Poi hanno cominciato a parlare del Corano, e della lettura metrica... .
La mattina dopo mentre andavo a scuola a piedi Iahia, che passava in macchina, mi ha chiesto se volevo un passaggio. Ho risposto di no. Lui è sceso, ha raccolto un fiore giallo nel giardino di una casa e me l'ha regalato. Due giorni dopo ha trovato, credo, un biglietto per la Giordania.
Per preparare un esame da sostenere prima di tornare finalmente a casa, in Italia, mi è stato assegnato un tema libero e mi è venuta in mente questa frase, che per me, negli anni, è diventata quasi un mantra: "bisogna imparare a rimanere da soli - man muss lernen allein zu bleiben". Non mi ricordo quello che ho scritto, ma sono certa di averlo fatto sentendo sulla pelle il segno profondo e disperato della solitudine di quei ragazzi.

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