sabato 17 luglio 2010

SO CHE C'E' UN UOMO



In uno squallido casale di campagna, sotto un caldo afoso e opprimente, si trascinano i dubbi, le paure e i malesseri di una famiglia senza controllo.
A tensioni mal represse fa eco una promiscuità morbosa, e il perturbante si insinua in ogni gesto,rumore e bestiario. Se poi il grande assente è il futuro, non basta la follia di un figlio dolcemente crudele a mascherare quel senso di ineluttabilità contro cui è inutile combattere.


NOTE DI REGIA
di Gianclaudio Cappai

So che c’è un Uomo è un film strano, profondamente strano. Eppure la materia trattata è cosi sentita che ogni elemento autobiografico profuso in regia sprigiona un forte bisogno di catarsi, se non di esorcismo. Un “affare di famiglia” dunque, che riserva allo spettatore non il ruolo di voyeur bensì di ospite un pò a disagio e non del tutto gradito.
Nell’animo di questi personaggi c’è un universo sull’orlo del collasso, che a volte può essere silenzio e sopportazione, oppure grido e rivolta. Fin anche morte.
Il mio sguardo impietoso su di loro vuole sì cogliere la fragilità di certi rapporti, ma soprattutto le incongruenze e le ambiguità dei nessi che li tengono uniti. Il resto spero lo facciano le immagini…



Riflessioni sul mediometraggio “So che c’è un uomo” di Gianclaudio Cappai
di Maria Lucia Podda 

La prima immagine del film è quella di un bellissimo bosco verde e fitto fitto, un’immagine positiva che parla di una natura rassicurante e rilassante e rimanda a tempi felici, collettivi e individuali, all’infanzia, alle fiabe…Ma è soltanto uno sfondo, in lontananza, un ricordo, forse una nostalgia…Infatti il quadro cambia bruscamente e lo spettatore si trova immediatamente immerso in una situazione confusa e sgradevole, nel contesto in cui stanno per svolgersi gli eventi, in apparenza pochissimi, ma in realtà tantissimi : c’è un nano, uno dei sette della fiaba di Biancaneve, di ceramica, sporco, con un grande buco al posto dell’occhio destro, che fa da tramite nel passaggio dall’uno all’altro ambiente.
L’ambiente al quale ci introduce il “nano” è chiaramente una campagna, ma senza natura se non il frinire delle cicale, ossessivo, martellante e raggelante, pur nella bruciante calura, che crea però una colonna sonora efficace e alienante. La natura è sostituita da un’accozzaglia di oggetti inservibili, abbandonati: vecchie gomme di automobili, vecchie pompe di benzina, giocattoli o mobili, attrezzi di ogni genere. Ma il contesto è attuale perciò non mancano gli strumenti tecnologici contemporanei che sono parte integrante della vita quotidiana dei personaggi e contribuiscono, in un certo senso, a determinarne il destino: il camper, l’automobile, l’aspirapolvere, il telefono, ecc. La località è lontana da paesi e città e, nonostante i mezzi di comunicazione, appare isolata dal resto del mondo e, direi, da un contesto civile.
Il senso di solitudine che emana da quell’ambiente prepara alle estreme solitudini narrate nel film: ogni personaggio ha la propria; si salvano soltanto i bambini che riescono a comunicare tra loro e a giocare insieme.
La casa, quella vera, ossia il casolare di cui si intravede soltanto la facciata, è costruita in pietra, perciò appare solida e rassicurante: peccato che la vita dei personaggi si svolga soprattutto altrove, nei dintorni, nel camper, in macchina, in spazi aridi e polverosi, all’aperto, ma non aperti, anzi, piuttosto limitati da oggetti ingombranti, da oggetti rotti che dovrebbero essere aggiustati, ma nessuno lo fa…Il casolare ha una bella sala da pranzo e per una volta ci è dato di vederla nella sua naturale funzione istituzionale di riunire la famiglia intorno a una grande tavola ben apparecchiata. Cinque persone sono componenti della famiglia che vive in quella casa e in quell’ambiente, mentre gli altri tre sono i cugini ospiti. Inizialmente il pranzo si svolge in un clima di serenità, ma basta un pretesto banale per frantumare quella serenità e scatenare una ridda di battute incrociate cariche di sottile cattiveria che dice molte cose sui rapporti e sulle tensioni presenti nella famiglia.
La vita dei membri della famiglia, cui si aggiungono i cugini presenti temporaneamente, ruota tutta intorno al malessere del giovane Cosimo, un malessere che si manifesta in tante forme: sofferenza fisica; depressione; piccoli gesti sgarbati e aggressivi nei confronti ora dell’uno ora dell’altro personaggio, senza risparmiare neppure i bambini; aggressività e violenza fisica nei confronti dei genitori e soprattutto della madre.
La malattia del giovane,però, non è l’oggetto dei discorsi della famiglia; c’è una certa omertà in tutti perché alcune cose si possono dire, altre no, ci sono silenzi, atteggiamenti che presuppongono eventi precedenti e fanno presagire sviluppi successivi: forse, si potrebbe pensare, proprio quei silenzi, quell’atmosfera depressa, apparentemente anaffettiva ha offerto alla malattia il terreno fertile per venire alla luce. E una volta uscita allo scoperto, la malattia ha tratto alimento e si è rafforzata grazie allo smarrimento in cui ciascuno è precipitato, alle debolezze, agli egoismi, alla mancanza di quella linfa vitale fatta di amore e di solidarietà, di consapevolezza e di intelligenza. La comunicazione tra le persone non è quasi mai fatta di parole: dominano i gesti, gli sguardi, fugaci contatti fisici che sottendono una inconsapevole sensualità che scaturisce da un profondo bisogno di amore inappagato. Chi rompe il silenzio è Tania ed è quella che ha il coraggio della verità: nel suo rapporto col cugino c’è sicuramente un affetto forte ma anche una componente di innamoramento e di attrazione che le consentono di percepirne la sofferenza e la rendono protettiva e preoccupata. Soprattutto crede di cogliere in certi sguardi di complicità, in gesti sfuggiti al controllo, in parole sussurrate la voglia della famiglia di liberarsi del ragazzo malato. La sorella di Cosimo, Virginia, alla quale Tania confida le sue paure, i suoi presentimenti, reagisce con durezza a simili insinuazioni. Come può venirle in mente che proprio il padre voglia fare del male a suo figlio? In realtà, in cuor suo, fa proprie le paure di Tania : si fa più attenta e capta sentimenti oscuri, desideri sotterranei, inconfessabili; per la prima volta sente che “il male” non proviene dal fratello malato, che anzi è in pericolo, ma da chi dovrebbe proteggere, amare, salvare.
dal profilo Fb di G.Cappai

Ora sono in due a sapere e, anche se la loro comunicazione è fatta più di gesti (abbracci, sguardi, condivisione di spazi, nel vecchio camper, nel letto, nel bagno) che di parole, si crea tra loro una certa complicità “ sororale”, nell’intento comune di proteggere il fratello-cugino, amato da entrambe, anche se con sfumature diverse.
Anche il padre ama il figlio, riesce a coinvolgerlo nelle varie attività della famiglia e insieme, padre e figlio, fanno tante cose. Ma l’attività che li coinvolge di più e crea tra loro un legame è l’addestramento dei galli e la partecipazione ai combattimenti. La comunicazione tra loro, però, manca di spontaneità e di autenticità e si riduce a poche questioni di vita quotidiana dove i toni sono bruschi e sgarbati, ma mai violenti. Viene da pensare che la lotta tra i galli sia lo specchio del loro rapporto e che le spinte aggressive reciproche siano trasferite su quegli animali che essi addestrano per la lotta decisiva in cui uno dei due dovrà soccombere: il più debole? Il meno furbo? Quello che smette di lottare ?
Sembra evidente, quindi, il ruolo simbolico del combattimento dei galli nel rapporto tra padre e figlio, così come il significato simbolico che esso assume nel film (rappresenta quel rapporto….è un doppio di quel rapporto)
Il rapporto tra il figlio e la madre è più complesso e rimanda, come è ovvio, a chissà quanti problemi irrisolti, forse mai affrontati e mai capiti. Da qui la sofferenza che, quando è troppa e insopportabile, prende la strada della violenza: è la madre, per destino, oggetto di amore e odio allo stesso tempo, ed è ambivalente essa stessa, come ci raccontano le fiabe, i miti e la psicanalisi. Perciò l’aggressività del figlio nei confronti della madre, è un evento assolutamente ordinario, ovvio, soprattutto quando una madre appare debole perché forse ha esaurito le proprie risorse, le proprie energie e si rifugia nella depressione per sopravvivere a sua volta. Sa che il problema è più grande di lei e non lo vuole più affrontare; non è una madre senza amore, ma è una madre che ha il cuore inaridito dalla troppa sofferenza e non è più capace di un gesto d’amore per il figlio sofferente, ne ha solo paura.
Entrambi i genitori appaiono come due persone esauste, che hanno sopportato molto nella vita e non possono sopportare più niente, si sono svuotati: non hanno più amore da dare, sono impotenti di fronte a quel male del figlio per il quale non c’è rimedio.
Quel luogo in cui si svolgono le vicende è un luogo isolato dal resto del mondo e implicitamente rappresenta l’isolamento della famiglia abbandonata a se stessa ad affrontare da sola un problema enorme, un problema che in certe situazioni prende forma di tragedia. Ma non vuole essere una denuncia sociale, il film, anche se inconsapevolmente lo è; esso, piuttosto, fotografa una realtà: la realtà di una famiglia alle prese con un problema difficilissimo; le azioni dei vari personaggi di fronte al problema, le reazioni e le interazioni reciproche, le verità e le ambiguità, il coraggio e la paura, il perturbante e il tragico. Ma soprattutto osserva un processo, l’evoluzione di certi eventi, il modo di essere dei personaggi e il loro modo di agire in una situazione o addirittura il modo in cui vengono agiti dagli eventi.
Dal modo di essere dei genitori, dalle poche frasi che si scambiano, dall’urgenza che hanno di salvare il salvabile di quella famiglia e dei loro beni, dal bisogno di ritrovare un equilibrio e uscire dalla paura con la quale convivono da sempre, scaturisce quell’elemento perturbante, che fa paura a sua volta ed è imprevedibile tanto quanto l’altro, anzi ancora più inquietante, perché non proviene da un “folle”, ma da un padre e una madre che si presumono affettivamente vicini, protettivi e rassicuranti, archetipi del familiare, del conosciuto,del prossimo, donatori di vita e non di morte.
La macchina da presa coglie spesso la madre abbandonata su un lettuccio del camper, triste, spossata,vuota; il padre viene colto mentre “pensa”, sempre un po’ staccato dagli altri, mangia da solo ed osserva ed elabora pensieri, cerca soluzioni. Vede che per la moglie la situazione sta diventando insopportabile: non si aiutano a vicenda a capire, ad accettare , vogliono fuggire dal problema, perché quel problema blocca la famiglia, pone troppi problemi a tutta la famiglia e vedono lo spettro di un futuro sempre più incontrollabile, che fa sempre più paura.
L’epilogo tragico è nell’aria:
la cugina Tania torna a casa perché la mamma è venuta a prenderla;
partono anche i fratellini di Tania e con essi anche il cugino piccolo, perché è estate e deve fare una vacanza;
la madre e la sorella si rifugiano in una stanza da letto: sembra che vogliano godersi un po’ di tranquillità insieme, dato che sono sole, mentre gli uomini e il bambino che solitamente si affidano alle loro cure non sono in casa;
il padre e il fratello partono al tramonto per l’ennesimo combattimento di galli.
Ognuno di questi eventi è innocente, non ha in sé niente di catastrofico, non nasconde secondi fini…O forse sì? Non sarà per caso che, in tutte queste azioni, così innocue, così ingenue, così normali, semplici emergenze quotidiane, si nascondano intenzioni oscure, finzioni, complicità
inconfessabili?
Infatti:
- la cugina parte, torna a casa sua, pur avendo capito che qualcosa di tragico accadrà, dopo la sua partenza. Abbandona al proprio destino quella famiglia;
- con la partenza dei bambini quella casa si svuota di qualsiasi elemento di speranza, di tenerezza, di
futuro; il figlio piccolo avrebbe potuto rappresentare un ostacolo per qualsiasi iniziativa
della famiglia; è stata la madre a mandarlo in vacanza dalla zia…
la madre e la sorella si rifugiano nella roulotte; forse sperano di trarre consolazione da quella vicinanza affettuosa e complice; forse sperano di vincere la solitudine e di attenuare il dolore. Sanno ciò che sta per accadere? Lo intuiscono vagamente? Lo ignorano? Fanno finta di non sapere? Le loro espressioni sono cupe ed enigmatiche e le loro parole assenti;
Se si guardano le cose da questo punto di vista non si può non vedere, nella sequenza dei fatti accaduti, ancora una volta quell’elemento perturbante che racconta qualcosa dei personaggi del film in cui ciascuno di noi può specchiarsi, anzi che racconta di noi e del nostro lato oscuro.
E’ proprio a questo punto che compare lo scorpione, naturale, sì, in quell’ambiente, ma che incarna il lato oscuro di ciascuno dei personaggi e arricchisce di senso il racconto.
Quando il padre annuncia al figlio che il combattimento dei galli avverrà quella notte, l’espressione “andiamo” richiama altre espressioni cariche di significato, evoca altri eventi molto lontani, anzi mitici: l’ “andiamo ai campi” di Caino ad Abele e, ancora di più,
l’ “ andiamo al monte sacro” di Abramo al figlio Isacco, al figlio che Dio gli aveva chiesto in olocausto ( o l’Ifigenia di Agamennone sacrificata dal padre per la vittoria dei Greci a Troia). E anche ora, come allora, di sacrificio si tratta, del sacrificio del figlio: il figlio innocente, senza colpe perché sofferente, che si fida del padre e si addormenta nella falsa attesa dei partecipanti alla gara. Lui non ha paura perché non incontra lo sguardo sfuggente di suo padre, non legge nella profondità di quello sguardo e non ne coglie il lato oscuro, non ne coglie l’elemento perturbante che ha dato i brividi a Tania; resta così senza difese e si offre, pur senza averne consapevolezza, pur senza dire il suo “sì”, come agnello sacrificale.

Il luogo del sacrificio non è casuale: è la cava di marmo abbandonata, già adocchiata dal padre in un precedente viaggio, durante il quale veniva riportato a casa un gallo morto e cioè il gallo che aveva perso la gara ed era stato ucciso dal gallo avversario; ma per una singolare anticipazione di eventi futuri, in quello stesso viaggio era stato caricato in macchina anche Cosimo, caricato dal padre e dalla sorella e sostenuto da essi alle spalle e ai piedi, a guisa di un Gesù morto e deposto, poiché dopo il combattimento si era sentito male. Viene abbastanza spontanea l’ identificazione tra il gallo morto e Cosimo svenuto, così come la sosta nella cava preannuncia l’epilogo tragico. Infatti, proprio lì, in quella cava abbandonata, sotto un cielo notturno privo di stelle, si compie l’ultimo atto di un destino che appariva ineluttabile fin dalle prime sequenze. E’ una condanna? E’ una salvezza?
L’ incendio della macchina con dentro il corpo del figlio richiama alla mente una “pira”, un vascello funebre che brucia il defunto insieme alla catasta di legna e ha una funzione purificatrice. Qui sembra più un atto di pietas del padre verso il figlio che un omicidio. Sicuramente non c’è violenza in quest’atto, piuttosto amore, quell’amore che il padre, per tutta la vita, non aveva saputo esprimere al figlio e che forse l’avrebbe salvato.
Mentre scorrono le immagini dell’incendio nella cava, ed è ancora notte, nella casa è già mattino,
come se i due luoghi , distanti pochi chilometri, appartenessero a due fusi orari lontani: Virginia,al risveglio, vede che in casa non c’è nessuno e prova un senso di smarrimento, ma poi esce dalla casa e vede sua madre che indossa un abito normale, non più la camicia da notte e la vestaglia che la facevano apparire sciatta e depressa, ma una gonna e una camicia, è serena e rilassata e si occupa di cose concrete come preparare i pomodori secchi. Virginia intuisce la causa di quel cambiamento. Tace. Trascina una sedia di ferro, pesante come un corpo morto, verso un punto del campetto coperto di erba secca, e il rumore che produce è veramente fastidioso, stridente, graffiante, e sembra che ferisca la terra e il silenzio ma è solo l’eco dell’urlo liberatorio che Virginia trattiene nel petto. Sistema la sedia in un punto esposto al sole: si siede e chiude gli occhi e si fa avvolgere dalla luce e dal calore, mentre da un occhio sfugge una lacrima che scorre per tutta la guancia. E’ il suo estremo, affettuoso addio al fratello.

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