Alla prima notizia per la radio sono andata in crisi. Quel signore con la faccia da Hemingway mi guardava e mi diceva: così non va, non si capisce questo, non si capisce quest’altro, questo è inutile che lo dici. Ma non mi spiegava come fare. Le parole giuste le ho trovate tutte da sola, una per una, seduta sulle scale della scuola di giornalismo, tra le redazioni del pianterreno e le aule del primo piano, mentre decidevo se restare o se andarmene via, a fare un altro mestiere. Sono state le mie cinque righe più lunghe.
Ho continuato a chiedermi per anni perché Mantovani non mi aveva spiegato niente e poi un giorno, nelle aule del piano di sopra, ad altri studenti, giovani come ero giovane io quel pomeriggio, ho detto che, prima di tutto, bisogna essere giornalisti dentro. Il modo in cui scrivi, il modo in cui, come diceva Giovanni, “racconti” le cose, è tuo e solo tuo, come il timbro della tua voce e l’espressione della tua faccia. E allora questo modo, se lo possiedi, te lo devi trovare dentro, altrimenti non lo fai questo mestiere.
Me l’ha insegnato, senza parlare, Giovanni Mantovani, uno dei più grandi professionisti della parola, ma anche del silenzio, che va riempito solo con le parole giuste. Non una di più, non una di meno.
Poi c’è stata la musica. Alla fine della scuola mi ha dato trenta nella prova d’esame: un pezzo su Bruce Springsteen. La musica, che ho condiviso con lui da lì in avanti, negli anni della Filarmonica e di Kuhn, ha fatto sì che nel tempo io diventassi attenta al colore e al calore delle mie parole. Ancora oggi comincio la giornata ascoltando musica, prima di mettermi a scrivere, a pensare, a lavorare sulle idee.
Questo è il mio pezzettino di storia con Giovanni, che da ieri non c'è più, che consegno alla memoria perché sono sicura che fa parte di un mosaico più grande e molto ricco. E voglio aggiungerci una immagine recente che sta nei miei ricordi, alla quale sono molto affezionata: lui che sfoglia con me il librone dei giudizi dei ragazzi sui docenti, quelli che ci facevano scrivere alla fine dei corsi dell’Ifg. Con una dimostrazione di fiducia che mi ha lusingato e quasi mi ha spiazzato Giovanni mi ha chiesto: “ma secondo te è vero che io sono freddo con gli studenti?”. Ho ripensato a quel pomeriggio passato a cercare le parole giuste da scrivere, sulle scale della scuola, e glie l’ho raccontato.
Chi è fortunato nella vita incontra una o, al massimo, un paio di persone che può chiamare maestro. Se oggi sono come sono, e un po’ mi piaccio, lo devo anche a lui.
ANTELITTERAM
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