venerdì 26 agosto 2011

UN BRUTTO PRESENTIMENTO, POI TUTTO E' CROLLATO SU DI NOI

di Claudio Monici
Avvenire del 26 agosto 2011
La strada si è fatta improvvisamente larga e silenziosa. Da una parte il lungo muro che costeggia il compound di Bab al-Azizia, a Tripoli, dall’altra un quartiere popolare di case basse. Il nostro pick-up correva veloce su un tappeto di bossoli, pietre e detriti: i resti della battaglia. Nessuno, ma proprio nessuno, intorno: solo sporadici colpi che tagliavano l’aria e la nostra concentrazione. Sentivamo, tutti, che qualcosa stava succedendo. Che il nostro viaggio, così ricco di segnali e presagi fin dall’inizio, ci stava portando al cuore di questa guerra. Ed è stato quel silenzio che l’ha rivelata a me.
Avevo negli occhi e negli orecchi i colori e l’euforia chiassosa di Piazza Verde dove eravamo stati poco prima per assistere ai festeggiamenti della “presa di Tripoli” da parte dei ribelli. Raffiche in aria, caroselli di mezzi militari, gli slogan urlati a tutta voce: «Libia libera, Libia libera». Quando ci siamo rimessi in viaggio, e la strada si è aperta in un vialone spettrale, quel silenzio mi ha subito gelato. Una sensazione forte, chiarissima. Perfettamente riconoscibile da chi fa questo mestiere. È esattamente in quel momento che ho capito: eravamo in pericolo, dovevamo tornare indietro. Questione di attimi: pochi metri di asfalto. Troppo pochi per riuscire a suggerire al nostro autista di fermarsi immediatamente, invertire la marcia.
Poi è successo tutto velocemente, come in un flash. Poco più avanti, in una postazione nascosta dietro un muretto, ho scorto delle figure che si muovevano lentamente. Ho visto le divise verdi, l’emblema su un berretto dell’Esercito libico. Mi sono detto: ecco, siamo passati dall’altra parte. In una manciata di secondi la nostra macchina è stata spinta in un angolo, siamo stati circondati da uomini in abiti civili, quasi tutti armati, e poi uomini in divisa. Erano tanti. Urlavano. Urlavano tutti. Ci hanno tirato fuori dalla macchina, malmenati. Hanno cominciato a toglierci di dosso tutto quello che avevamo. Un mattatoio: mi sono sentito dentro un mattatoio. È arrivata un’altra macchina, un pick-up, di quelli con un cassone dietro semi-chiuso. Ci hanno spinti lì dentro: noi quattro giornalisti e il nostro autista. La macchina si è mossa, ha percorso cento metri. E si è fermata contro un muro. Altre persone ci hanno circondato: alcuni sporchi di sangue raggrumato, o con grossi cerotti sul volto. Hanno cominciato a insultarci. «Italiani!», «Berlusconi!», «Nato!». Infilavano le braccia e le canne dei fucili nel portellone per cercare di tirarci giù da lì. Il collega del Corriere è stato colpito forte in volto. Qualcuno intanto cercava di spostare il nostro automezzo, liberarlo da quell’assedio. Ma ci attendeva solo il peggio.
Al Maadi, il nostro autista, l’avevo contattato in marzo durante il mio precedente viaggio. Era di Zintan (sud di Tripoli). Stava con noi dal giorno prima: ci aveva accompagnato da Djerba, in Tunisia, fino a lì, e durante il viaggio avevamo fatto tappa da alcuni suoi familiari: eravamo stati accolti con amicizia, rifocillati. L’autista ci aveva chiesto di poter passare, il giorno dopo, in un piccolo villaggio sulla strada per poter salutare i suoi genitori. Lo aveva detto con un tono intenso: più un presentimento che una richiesta. Era un uomo di esperienza, sulla sessantina. Che conosceva bene il suo mestiere e conosceva bene il suo Paese: per questo teneva, fedele compagno di viaggio, un Kalashnikov a fianco del sedile. Non gli è servito, però, in quel posto sbagliato, nel momento sbagliato. Forse tra la gente della tribù sbagliata. Forse, più semplicemente, tra gente sbagliata.
Dentro quel cassone, dentro quell’inferno, sentivo la sua spalla accanto alla mia. Tenevamo tutti e due la testa bassa. Mi sono girato verso di lui, ma solo un poco, perché stava mormorando qualcosa. Stava pregando. Sapeva che stava per morire, lo sentiva. L’hanno trascinato giù.
Ricordo due raffiche, alle spalle di uomo inerme, lì, in piedi. La prima l’ha costretto in ginocchio, le braccia in alto. La seconda l’ha schiantato a terra, a faccia in giù.
Mi sono sentito inutile, impotente. Ho pensato, con una strana freddezza, che adesso sarebbe toccato a noi. E invece.
Invece la macchina è ripartita. Per tornare, però, quasi allo stesso punto: non sapevano nemmeno loro cosa fare di noi, dove mandarci. Ci siamo ritrovati fermi a una cinquantina di metri da lì, in una viuzza dove c’erano alcune persone sedute sotto un albero. Ci hanno fatto scendere, ordinato di entrare in una specie di garage aperto con un grande cancello verde. Da lì, ci hanno indicato la porta che conduceva a un ripostiglio: un bugigattolo due metri per due con una grata in alto che dava sull’esterno.
Ci siamo seduti: per terra, su uno pneumatico, sopra una tanica di benzina piena. Dalla finestrella si percepivano, vicinissime, discussioni e urla concitate. Ho capito che quelli di fuori volevano noi, la nostra pelle, mentre altri valutavano diverse e forse più convenienti possibilità. Liti continue sul nostro destino che hanno segnato tutta questa esperienza, dall’inizio alla fine. Liti in arabo ma perfettamente comprensibili anche a noi, e comunque ben “rappresentate” in quel bugigattolo: qualcuno ci ha portato acqua e biscotti, qualcuno ha sputato attraverso la grata.
Siamo rimasti accucciati in quello sgabuzzino per tre ore, mentre fuori, sulla strada, infuriava la battaglia. Sentivamo i proiettili fischiare lì accanto, come il cinguettio di tanti uccellini. Colpi di artiglieria pesante facevano tremare i muri.
Verso sera, saranno state le sei, un tizio ci ha chiesto se avessimo bisogno del bagno. Ci hanno portati in una casa privata lì accanto. Mentre stavamo tornando verso il nostro sgabuzzino, sono arrivati nel cortile davanti al garage due grossi pick-up carichi di uomini armati in divisa. Facce che dicevano tutto, e niente di buono. Hanno cominciato a parlare con le persone che ci tenevano in quell’edificio e che, pur essendo in abiti civili e non armati, si rivolgevano loro con autorevolezza. Ho pensato a un elemento di superiorità tribale. Ho pensato che questi che ci avevano “custoditi” sinora fossero, forse, notabili del quartiere, comunque autorità.
La discussione si è protratta per un po’. Poi ci hanno caricati su un furgoncino: mi ricordo solo di aver messo i piedi su una grossa chiazza di sangue fresco. Ci hanno portato cento metri più avanti e lì ci siamo imbattuti in una postazione lealista con un pick-up caricato con la contraerea che ha sparato in direzione di Tripoli. Così l’autista ha fatto inversione a U, ritrovandoci molto vicini al garage da cui eravamo stati spostati. Lì, dopo una svolta, c’è una sorta di comando militare. Ci hanno spiegato in qualche modo che dovevamo essere interrogati da un generale per il fatto di essere entrati illegalmente nel paese. Eravamo entrati in Libia dal confine tunisino, controllato dagli insorti.
Stavamo ancora nel camioncino. Ho girato il volto verso il finestrino aperto e un pugno mi ha sfiorato lo zigomo. Ho concentrato lo sguardo per cercare di capire chi l’avesse sferrato, ma il responsabile si era già spostato più in là, e quello spazio, lì a pochi centimetri dal mio naso, era stato riempito dai due occhi stupiti e a me così familiari. Quel volto vibrante, luminoso, già visto tante altre volte in Africa – in Sierra Leone, in Eritrea, in Somalia –, o a Lampedusa. «Sorry». Il giovane mercenario mi ha chiesto scusa. Per quello che mi stava accadendo e forse anche solo per il fatto di essere lì, pagato e sfruttato dalla follia del regime.
E poi ancora, più in là, eccone un altro. Indossava una divisa nuovissima, senza una piega. Sotto, una maglietta del Milan. Uno dei miei colleghi l’ha indicata, ha sorriso. Un tentativo di allentare la tensione. Il ragazzo – non aveva vent’anni – ho cominciato in fretta a tirare fuori decine di pallottole dalle tasche della sua giacca militare fiammante. L’ha lisciata un pochino con le mani. E ha fatto per togliersela: voleva regalarcela. Pensava avessimo indicato quella, non la maglia del Milan. Pensava ci piacesse la sua bellissima giubba nuova. Ed era pronto a darcela, in un gesto impensabile di gratitudine verso il nostro Paese.
Abbiamo ringraziato con un cenno del capo. E siamo usciti da quella bolla così incredibile, così lontana da tutto il resto, solo quando un civile, sui trent’anni, che stava su una macchina più avanti, dopo aver confabulato con i militari – mi è parso di sentir citare l’hotel Rixos – si è avvicinato a noi. «Venite con me», ha detto in inglese. Tono neutro, per nulla minaccioso. «Vi porto a casa mia, stiamo un po’ a casa mia».
Siamo scesi dalla macchina e, lui davanti e noi dietro, abbiamo fatto duecento metri a piedi per raggiungere la sua abitazione. Il giovane ci ha detto di stare tranquilli: «Finché siete qui dentro non vi succederà nulla». Ha preso il telefono e fatto qualche telefonata. Ha parlato con la fidanzata. Con alcuni amici.
La situazione era piuttosto calma, rilassata. Ho sentito di poterlo fare e l’ho fatto. Gliel’ho chiesto: «Posso usare il telefono per chiamare in Italia?». Con gentilezza me l’ha porto. «Nessun problema». Ho chiamato Avvenire.
Siamo rimasti a casa di questo giovane un altro po’. Poi, sempre a piedi nella via deserta, costeggiata da acacie spelacchiate, siamo tornati nell’appartamento dove nel pomeriggio ci era stato consentito di andare in bagno. L’uomo ci ha accompagnati in una stanza dove c’erano alcuni materassi appoggiati a terra. «State tranquilli – ci ha detto –. Siete in mani sicure. Non vi succederà niente. Potremmo lasciarvi andare, ma se provate a uscire da qui, quelli fuori vi ammazzano immediatamente».
Altri uomini ci hanno portato da mangiare. Ci hanno chiesto se avessimo bisogno di qualche cosa in particolare. Sono arrivate altre persone – tra queste ho riconosciuto alcuni che ci avevano strattonati nel pomeriggio – e si sono fermate a chiacchierare con noi grazie all’aiuto di un traduttore. La Libia, i raid. Siamo stati bersagliati da domande semplici che richiedevano risposte complicate: «Ma perché ci attaccate? Perché state facendo questo alla nostra gente?». Il nostro giovane “accompagnatore” rifletteva perplesso su dinamiche e strategie che restavano per lui incomprensibili. Un uomo più anziano: «Sono nato e cresciuto in questo Paese. Mia moglie è stata costretta a fuggire all’estero. Io, nella mia vita, non ho mai sparato a nessuno, bombardato nessuno, perché devo subire tutto questo?».
Due, tre ore. Poi le parole si sono fatte più lente, la discussione si è allungata nel buio di una notte aggrappata con incerta speranza a questo tentativo di confronto, di conciliazione. Rimasti soli nella nostra stanza, ci siamo stesi sui materassi. Nessuno ha dormito.
Abbiamo visto un’alba luminosissima entrare dalla finestra. Ci hanno portato dell’acqua, del caffè. Hanno insistito perché facessimo colazione nonostante il Ramadan. Poi, senza che quasi ce ne rendessimo conto, in un secondo, come fosse arrivato un ordine preciso dall’alto, siamo stati caricati in macchina. «Vi portiamo all’Hotel Rixos». Ci siamo guardati con incertezza: non sapevamo quello che ci attendeva fuori da lì. Il Rixos, per quel che ne sapevamo, era in mano ai lealisti.
Ci hanno sistemati su un pick-up, in mezzo ad alcune taniche blu di acqua. Abbiamo percorso qualche chilometro in una parte di Tripoli letteralmente abbandonata: una città fantasma. Poi siamo arrivati a un posto di blocco. E poi a un altro. Un altro ancora. Ci siamo fermati davanti a un edificio largo e alto. Ho pensato si trattasse del Rixos. Ma ho visto un uomo con una telecamera, forse di una televisione belga. E ho visto quella bandiera: la bandiera degli insorti, della nuova Libia. Ho pensato: siamo salvi. Scesi dal camioncino, i ribelli hanno cominciato ad abbracciarci: «Giornalisti italiani! Giornalisti italiani!». Abbiamo salutato i nostri accompagnatori. Altri uomini ci hanno messo su due macchine. Ci hanno detto che eravamo stati rilasciati «per rispetto a Dio». Abbiamo attraversato strombazzando tutto il quartiere. Fino all’Hotel Corinthia. Fino alla Libertà.
Ho respirato a fondo. E poi, con gesto automatico, ho cercato il mio telefono. Nella tasca ho trovato però solo il taccuino: l’unica cosa che non mi era stata portata via. L’ho stretto forte. Ho cercato, come fosse il primo dei miei doveri, le parole per iniziare a raccontare. Senza trovarle. Cosa c’è da raccontare quando hai visto uccidere un uomo?

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