venerdì 26 agosto 2011

UNA CURVA SBAGLIATA ED E' INIZIATO L'INCUBO

Di Elisabetta Rosaspina
Corriere della Sera del 26 agosto 2011
Un foglietto spiegazzato con i nomi in arabo e due numeri di telefono è tutto ciò che ci resta, assieme a una penna rossa con la pubblicità del film Titanic, dei due veri protagonisti di questa storia: due ragazzi gheddafisti che hanno rischiato la loro vita per riportarci nella zona liberata di Tripoli, attraversando le linee nemiche e lasciandoci solo quando sono stati certi che fossimo al sicuro.
La prima cosa che ha fatto per noi Mustafa, pantaloni a scacchi e canottiera bianca, è stato di portarci acqua e biscotti, che ha depositato con un gesto brusco sul pavimento di cemento del ripostiglio in cui eravamo stati rinchiusi tra taniche vuote di benzina, una bombola di gas, bottiglie di olio di semi, scatoloni e una bandiera verde impolverata della Jamahiriya. Abdel, 30 anni, magro, barba un po' alla Che Guevara, si è materializzato qualche ora dopo sulla porta del garage dove premeva un gruppo di miliziani che volevano caricarci su un Toyota pick-up per andare a concludere la storia a modo loro: veloce, secco, come una raffica di mitra. Abdel, disarmato, scalzo, ha preso in mano la situazione: calmando gli esaltati in tuta mimetica, rabbonendo un miliziano con elmetto e giubbotto antiproiettile, dando sulla voce ai ragazzini con la T-shirt del Milan sotto la camicia militare e il kalashnikov imbracciato con la disinvoltura dei veterani di guerra. Senza di loro, senza Mustafa e Abdel, sarebbe finita peggio, anche se sarà impossibile cancellare l'immagine di Al Mahdi, il nostro autista, riverso sul marciapiede, ammazzato a bruciapelo.
Sono le 11,30 della mattina, Claudio Monici, l'inviato di Avvenire perlustra l'auto color argento con uno scettico Al Mahdi. Manca la ruota di scorta e i 40 chilometri che separano Zawiya da Tripoli sono pieni di insidie (e di buche). Ma il tempo stringe e la ricerca di un gommista rischia di essere lunga e infruttuosa. Al Mahdi non è tipo da demordere, trova lo pneumatico che gli serve, ovviamente contratta il prezzo. E poi, finalmente si parte, Claudio siede davanti. Sul sedile posteriore noi due e Domenico Quirico, della Stampa . Tutto fila liscio fino alla periferia di Tripoli, poi avanti ancora, sciué sciué (piano, piano) fino ai primi casermoni della capitale. Un'ultima curva davanti a un gigantesco ritratto di Gheddafi crivellato dai proiettili ed eccoci nella Piazza Verde, il cuore della città e del regime che sta morendo. Le jeep dei ribelli girano in tondo. È una festa: arrivano da diverse regioni della Libia: sparano in aria, sventolano la nuova bandiera (verde, rossa e nera). «Questa generazione ha fatto molto per noi - osserva, sotto la vecchia sede della Banca di Roma, un professore di letteratura inglese dell'Università Al Fatah - adesso qui tutti hanno le armi, ce ne sono tante, ma non troppe: dobbiamo difendere la nostra libertà».
Ma hanno vinto davvero su tutto il fronte? Parrebbe di sì, anche l'Hotel Rixos, uno degli ultimi presidi dei gheddafiani, risulta essere ormai in mano ai ribelli. C'è un anziano signore coi baffetti che si avvicina al nostro gruppo smozzicando qualche parola di italiano. Cinque minuti di chiacchiere e poi l'offerta: «Se volete vi porto io, conosco la zona. Sicura, miè miè, al cento per cento». Qualche sguardo interrogativo, poi saliamo in macchina e partiamo. Cento, duecento metri dalla Piazza Verde, passiamo di fianco al centro commerciale di Aisha, una delle figlie di Gheddafi, poi sbuchiamo in una strada larga, sbrecciata e, soprattutto, deserta in modo sospetto. Claudio è il più lucido e il più pronto: «Non mi piace, indietro, torniamo indietro». Qualche secondo di esitazione e dopo un'altra curva vediamo sbucare un uomo in mimetica, berretto con stella verde, nero centrafricano: potrebbe essere uno di quei mercenari al servizio del Colonnello di cui tanto si è parlato. È appoggiato alla ringhiera di protezione di un ponte, sembra quasi sorpreso, ma poi si scuote e si scatena un turbine di divise strane, grida, e mitra spianati.
Ancora pochi secondi e la macchina viene bloccata, dieci, cento mani ci strattonano, ci frugano, ci portano via tutto: telefonini, passaporto, soldi, computer. Tutto. Solo adesso ci ricordiamo che anche il nostro autista Al Mahdi ha un kalashnikov appoggiato sul pianale. Normale per tutti i ribelli, fatale nella tana del nemico. Adesso il tumulto è totale, ci spingono in un minivan. Tutti e quattro pigiati nei posti di dietro e, naturalmente, spaventati. Buttano dentro, letteralmente, anche Al Mahdi, volano schiaffi, pugni, sputi. Avanziamo metro su metro tra i miliziani che agitano i mitra, le rivoltelle. Uno di loro sta controllando i documenti di Al Mahdi: viene da Zintan, la città nemica per eccellenza di Gheddafi. Purtroppo è facile fare un tragico conto: mitra + Zintan. Lo ha fatto Al Mahdi che piega la testa e mormora quella che ci sembra una preghiera. Lo ha fatto il miliziano più feroce che ora lo afferra per la jalabiya e lo trascina fuori dalla macchina. Sentiamo i colpi, vediamo la figura bianca cadere sul marciapiede. E adesso? Ancora minacce, urla, schiaffi. Tirano giù anche noi? No, qualcuno si sta facendo largo tra le canne dei fucili. Cinque, sei uomini agitano le mani, cercano di domare quegli uomini pieni di odio feroce. Solo grazie al loro intervento ci ritroviamo in una grande casa patronale. «Garage, garage» urla qualcuno. Si apre un cancello verde in metallo, passiamo in un piccolo patio e poi ecco un'altra porta in ferro. È un piccolo ripostiglio con una finestrella aperta sulla strada. Quando si chiude il chiavistello ci sentiamo quasi sollevati. Per lo meno siamo al riparo. È già l'una, fa caldo. Gola secca.
Si apre la porta e per la prima volta vediamo Mustafa, anzi l'acqua, il succo di frutta e i biscotti che ci butta lì senza dire una parola. Nel frattempo alla finestrella si alternano i giovani gheddafiani: chi sputa, chi ci rinfaccia le imprese di Sarkozy e di Berlusconi, chi si passa il dito sotto la gola: vi scanniamo. Poi spariscono per un po', mentre si intensifica il fuoco delle batterie anticarro e a un certo punto ci sembra che stiano sparando proprio davanti alla casa. A metà pomeriggio la porta si apre un'altra volta: è ancora Mustafa, ci fa uscire e ci porta nel cortiletto. Indica una fontana, ci offre del sapone liquido per lavarci le mani, chiede se vogliamo andare in bagno. Intanto il patio si riempie della stessa fauna della mattina: ancora mimetiche, giubbotti antiproiettile, soldati ragazzini. E ancora minacce, urla, ma nessuno si azzarda a toccarci. C'è qualcuno che parla con un tono di voce ugualmente aspro: è l'unico disarmato. E questo chi è? Non parla inglese, azzarda qualche frase. Ma in fondo non c'è bisogno. «No problem, no problem», ci ripete con uno di quei sorrisi che nelle persone pulite partono dagli occhi. E Abdel è molto più che pulito, è una persona rara, imperdibile e indimenticabile come scopriremo presto. Ma è anche abile, sa usare le parole, sa trovare persino in questi miliziani assediati e pronti a tutto la leva per ribaltare la situazione.
Racconta che non ci possono ammazzare così, che dobbiamo essere portati dal «Generale», che non tocca a loro decidere. A noi dice: vi portiamo dalla polizia e lì avrete la possibilità di spiegare che cosa ci fate qui. Noi lo abbiamo ripetuto tutti e quattro almeno cento volte: siamo solo giornalisti, non abbiamo armi, non siamo il vostro nemico. Dopo una serie di giravolte e di false partenze, con la jeep che si incaglia a metà strada ancora una volta circondata da volti minacciosi, Abdel coglie tutti di sorpresa. Ci fa scendere: li porto io con la macchina di mio padre. Tutto intorno sparano: siamo in una gabbia costruita da uomini a loro volta in gabbia. Come ne usciamo? Il ragazzo alto e moro cammina spedito, quando si attraversa fa segno di correre: «Shot, shot» (sparano, sparano): corriamo, corriamo, ma dove stiamo andando? «A casa mia» è la risposta spiazzante di Abdel. La prima di una lunga serie. È un edificio basso come gli altri, bianco come gli altri. Ma qui dentro succede qualcosa che a tutti noi sembra incredibile. Entriamo, ci togliamo le scarpe come usa nei Paesi arabi e Abdel ci fa sedere sui divanetti poggiati in terra e ora sorride: «Relax, relax», «no problem, no problem». Passa in cucina e torna con acqua, succhi, datteri. È pieno Ramadan e il giovane musulmano rispetta alla lettera il precetto del digiuno. Non tocca cibo e acqua dalla mattina e dovrà aspettare le 19.59, l'ora del tramonto. Ma finalmente si parla. Si comincia con lo stadio Giuseppe Meazza e Gattuso e Abdel si illumina. Poi si passa alla sua fidanzata e il giovane è raggiante: sperano di sposarsi presto. Ma alla fine, inevitabilmente, si scivola nella politica e Abdel si rabbuia. Anche lui ce l'ha con Sarkozy e Berlusconi, ma ciò che veramente lo annienta è quello che vede intorno: «Il mio Paese, il mio povero Paese distrutto dalla guerra».
Racconta di vecchi amici, di conoscenti da trent'anni che da un giorno all'altro, qui nel quartiere di Abu Salif, hanno cominciato a spararsi addosso. Ci rendiamo conto come si somiglino le storie delle famiglie rimaste fedeli a Gheddafi con quelle che abbiamo raccolto lungo la strada verso Tripoli. L'acqua corrente manca sia qui che là. I generatori per alimentare un minimo di corrente sono gli stessi. Come pure la preoccupazione per mettere in salvo i bambini, le donne («i musulmani proteggono le donne») è la stessa. I ragionamenti di Abdel possono non convincere, ma hanno il suono inconfondibile della sincerità. Ora il nostro «carceriere» parla come un amico. Da prigionieri siamo diventati ospiti. A rendere concreto il concetto ci pensa l'inseparabile Mustafa. Arriva il caffè, arriva il tè e poi la cena di fine Ramadan. Pasta al sugo, uova sode, spezzatino. Sarebbe bello spazzolare via tutto, ma nessuno di noi ha fame. È quasi notte, ormai, e intanto siamo tornati nella casa padronale, ma a questo punto nel soggiorno al primo piano. Anche il proprietario ci accoglie con gentilezza e generosità, anche se nella dispensa è rimasto ben poco e le taniche con l'acqua potabile sono ormai a livello di guardia.
Certo, ora si sta meglio, ma siamo sempre tagliati fuori. Come facciamo a dare l'allarme? Basta un'occhiata e Abdel capisce al volo: «Telefonare? No problem» e ci tende il piccolo cellulare. Ancora una volta increduli avvisiamo i nostri giornali. La linea è difettosa, le chiamate con il Consolato italiano di Bengasi procedono a sprazzi. Sì, Bengasi, il quartier generale degli anti-Gheddafi. «Ci hanno chiamato dall'Italia». «Certo, certo», sorride Abdel.
È ora di dormire. Mustafa tira fuori materassini, distribuisce cuscini. La notte è insonne: agli spari si alterna il rombo degli aerei e, quando tutto si placa, comincia un martellante chicchirichì dei galli completamente in tilt. Inevitabilmente i dubbi, i timori si moltiplicano. La mattina arriva il buongiorno del nostro ospite. Si scusa: i negozi sono ormai abbandonati. Non c'è abbastanza per preparare la colazione. Poi naturalmente arrivano puntuali il caffè e i muffin di Mustafa. Ma abbiamo capito che il problema non è la colazione. Il problema siamo noi. «La giornata sarà molto calda oggi», dice Abdel. Poi scambia un'occhiata con l'amico e dice: andiamo. Nel cortile è pronto un camion con i bidoni vuoti per l'acqua. Ci distribuiamo tra l'abitacolo e il cassone. Mustafa al volante, Abdel dietro tra le taniche. Usciamo dalla casa, lentamente, poi sfiliamo tra le strade deserte, tra le auto bruciate, gli sbarramenti di cemento, i segni degli ultimi combattimenti. Non c'è nessuno, filiamo via indisturbati fino a imboccare un lungo viale fiancheggiato da due file di alti edifici fronteggianti. È uno scenario alla Sarajevo: le fazioni si sparano da una finestra all'altra. Ma stamattina è tutto abbandonato. Abdel ripete con gli occhi lucidi: «Povero il mio Paese, povero il mio Paese». A un certo punto cominciamo a vedere le bandiere dei ribelli. Ma dove stiamo andando? Ce lo chiedono anche i giovani ai posti di blocco; ma Abdel sembra che abbia un lasciapassare speciale, saluta e sorride ai suoi nemici. E lo fa solo per noi. Fine corsa: hotel Rixos, ultimo pezzetto della capitale liberata. Siamo in salvo. Ma è difficile separarsi da Abdel e Mustafa. Li aspettiamo a Milano. Stadio Giuseppe Meazza.

Nessun commento:

Posta un commento