L'altro giorno ho letto su Vanity Faur una riflessione se vogliamo elementare, che diceva più o meno così: se tante cose accadono nel nostro Paese, tipo la bellezza usata come merce di scambio per avere soldi, successo, carriera, futuro, e nessuno grida veramente allo scandalo, è perché non siamo più un Paese civile.
Oggi ho letto su un quotidiano locale la frase di un giovane politico, anch'essa, se vogliamo, banale: c'è una regola democratica per cui per governare ci vuole una maggioranza. Ma, anche in questo caso, la più semplice ed elementare regola democratica viene disattesa in nome di un non meglio definito bene comune. Cos'è questo bene comune? Chi lo decide se non chi è stato indicato democraticamente dai cittadini per questo attraverso il voto? Anche in questo caso penso che si possa parlare di civiltà. Se i "numeri" indicati dai cittadini non ci sono più, è per il loro rispetto e per il loro bene che bisogna fare un passo indietro.
In ogni Paese civile tante situazioni italiane a noi note si sarebbero risolte immediatamente con un ritorno alle urne e, prima ancora, con una serie di democraticissimi, rispettosissimi e coraggiosissimi passi indietro. Persino Strauss Kahn ci dà lezioni in questo senso.
C'è una sempre più dilagante mancanza di fiducia, a doppio senso. Manca la fiducia della gente nei confronti delle istituzioni, ma anche quella di chi governa nei confronti della gente. Perché chi governa è così restio a dimettersi? Perché ci si rifiuta di "rimettersi" al giudizio dei cittadini? Anche questa può essere una domanda banale, così banale da sembrare ingenua. Vogliamo pensare al livello nazionale, oppure al caso di Parma, per avere una risposta automatica e scontata?
Certo, la risposta è scontata. Ma non è scontata la reazione quasi passiva a questo immobilismo devastante delle istituzioni colpevoli (di reato, di scandalo, ma anche di inconcludenza, di trascuratezza, di incompetenza, di supponenza). Se loro non sentono più, come nel passato, l'imperativo categorico del ritiro che deve seguire democraticamente a un fallimento, forse noi cittadini (quelli privati e quelli impegnati nelle istituzioni) non sentiamo più l'imperativo categorico della protesta fatta con gesti concreti. A volte ci basta la satira, l'insulto, oppure la rabbia privata, o, al limite, gridata. Gridata al vento.
Leggendo i giornali, il web, parlando con la gente, però, si comincia a intravedere qualcuno che comincia a dire che bisogna reagire, che non si può subire. Ma ce la faremo?
Abbiamo dalla nostra il vantaggio della globalizzazione, che ci fa guardare facilmente al di là dei nostri confini, per misurarci e, se necessario, per provare vergogna e da lì ripartire. Ma abbiamo un rischio potenziale: che le nostre menti e le nostre coscienze siano andate definitivamente in letargo, dopo anni di sonnolenza ovattata dentro un benessere che, credevamo, ci avrebbe fatto sopravvivere tutti, più o meno bene. Oggi che ci dobbiamo svegliare, perché il benessere se ne va, rischiamo di restare troppo a lungo intorpiditi, di non mettere a fuoco subito, di sottovalutare i problemi o di farci paralizzare dallo sconforto di una situazione che ci può piombare addosso da un momento all'altro. Stiamo aspettando che arrivi qualcuno a salvarci, e allora ci incazziamo con la sinistra che è imbelle di fronte alla destra corrotta o con la destra che, con la sua corruzione, ha tradito i nostri ideali, o anche con il centro, che non sceglie e sta un po' di qua e un po' di là. Io credo che qui non arriverà nessuno a salvarci: né Bersani, né Fini, né Nichi Vendola e nemmeno il presidente della Repubblica (una delle poche menti veramente illuminate del momento, portatore di una saggezza che per il resto è un ricordo lontano). Non può farlo nessuno, perché manca la base. Si deve ripartire da lì, dalla base, da ciascuno e da tutti insieme. Dalla base, perché è lì che si ritrova il senso dei problemi. Qui mancano i soldi, non c'è più filosofia, le parole stanno a zero, i discorsi sono all'osso. Non c'è più il welfare allargato. C'è il rischio di perdere il necessario. Penso sempre alla crisi del trasporto pubblico locale, che in questi giorni è uno degli oggetti di dibattito e di scontro tra il governo e gli enti locali. Qui si tagliano i fondi in modo drastico. C'è il rischio, effettivo, che si debba tornare a spostarci ognuno con i nostri mezzi, ognuno con le nostre gambe. E' una realtà, ma anche una metafora. Chissà che non si debba ripartire proprio da lì? Ognuno dalle proprie gambe.
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